domenica 25 maggio 2025

Discorso sul Simbolo rivolto ai catecumeni Sant'Agostino d'Ippona


Discorso sul Simbolo rivolto ai catecumeni

Sant'Agostino d'Ippona



 


La formula della fede.

1. 1. Ricevete la formula della fede che è detta Simbolo. E quando l'avete ricevuta imprimetela nel cuore e ripetetevela ogni giorno interiormente. Prima di dormire, prima di uscire, munitevi del vostro Simbolo. Nessuno scrive il Simbolo al solo scopo che sia letto, ma perché sia meditato. E perché la dimenticanza non distrugga ciò che la diligenza ha tramandato, funzioni da libro per voi la vostra memoria. Ciò che udrete sarà l'oggetto della vostra fede e quello che crederete lo ripeterete anche con la lingua. Ha detto infatti l'Apostolo: Con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza 1. Questo è il Simbolo che ripasserete e che ripeterete. Le parole che avete sentito recitare si trovano qua e là nelle Scritture divine ma da lì sono state raccolte e riassunte in un unico testo per evitare fatica alla memoria degli uomini più lenti e perché ogni uomo possa dire, possa ritenere quello che crede. Non avete proprio appena adesso sentito che Dio è onnipotente? Ebbene voi cominciate ad averlo anche come Padre, dal momento in cui foste nati da quella Madre che è la Chiesa.

Dio onnipotente è Padre.

1. 2. Così dunque avete già imparato, avete meditato, avete ritenuto il concetto, siete nella situazione di poter dire: Credo in Dio Padre onnipotente 2. Dio è onnipotente. Essendo tale, non può morire, non può ingannarsi, non può mentire, e, come dice l'Apostolo: Non può rinnegare se stesso 3. Quante cose non può fare pur essendo onnipotente, anzi proprio perché non le può fare è onnipotente! Infatti se potesse morire, non sarebbe onnipotente; così se potesse mentire, ingannarsi, ingannare, agire ingiustamente, non sarebbe onnipotente; se tali possibilità ci fossero in lui, ciò non corrisponderebbe alla onnipotenza. Indubbiamente il nostro Padre onnipotente non può peccare. Può fare quel che vuole perché è la onnipotenza stessa. Fa qualunque cosa voglia di bene, di giusto; una cosa che sia male a farsi non la vuole. Nessuno resiste all'Onnipotente così da non fare quello che egli vuole. Egli fece il cielo, la terra, il mare e tutto quello che essi contengono 4, realtà invisibili e realtà visibili. Invisibili come, nei cieli, i Troni, le Dominazioni, i Principati, le Potestà, gli Arcangeli, gli Angeli, i nostri concittadini, se vivremo bene. Creò nel cielo anche realtà visibili: il sole, la luna, le stelle. Ornò la terra dei suoi animali terrestri, popolò l'aria di volatili; popolò la terra di esseri che camminano e di esseri che strisciano, il mare di esseri che nuotano. Tutto popolò di creature appropriate. Fece anche l'uomo, con la mente a sua immagine e somiglianza. Nella mente infatti c'è l'immagine di Dio, perciò la mente non può essere compresa neppure da se stessa, in quanto c'è in essa l'immagine di Dio. Noi siamo stati fatti per aver dominio sulle altre creature, ma per il peccato siamo caduti, nel primo uomo, e divenuti tutti partecipi di un'eredità di morte. Siamo divenuti poveri mortali, siamo pieni di timori, di errori, e questo a causa del peccato: con questo demerito e questa colpa nasce ogni uomo. Perciò, come avete visto oggi, come sapete, anche i bambini vengono purificati col soffio, ed esorcizzati per scacciare da loro il potere nemico del diavolo, che inganna l'uomo per possedere gli uomini. Nei bambini non viene esorcizzata e purificata col soffio la creatura di Dio, ma colui sotto il potere del quale si trovano tutti coloro che nascono nel peccato: [Satana] è infatti il capo dei peccatori. Perciò a causa di uno che cadde nella colpa e mandò tutti alla morte fu inviato Uno senza colpa per condurre alla vita tutti quelli che credono in lui, liberandoli dal peccato.

Gesù Cristo unico Figlio uguale al Padre e non da lui diviso.

2. 3. Perciò crediamo anche nel suo Figlio, Figlio cioè del Padre onnipotente, unico Signore nostro. Quando senti " Unico Figlio di Dio " riconosci che è Dio. Non potrebbe infatti l'Unico Figlio di Dio non essere Dio. Quello che egli è questo generò, anche se non s'identifica col generato. Se è vero Figlio, è quello che è il Padre. Se non è quello che è il Padre non è vero Figlio. Guardate nel campo delle creature terrene e mortali: ogni essere genera quello che è lui stesso. L'uomo non genera il bue, la pecora non genera il cane, né il cane la pecora. Di qualunque specie sia chi genera, non può che generare ciò che è lui stesso. Ritenete dunque con certezza, fortemente, fermamente, fedelmente, che Dio Padre generò quello che è lui stesso, l'Onnipotente. Queste creature mortali generano sul piano della corruttibilità. Forse che Dio genera così? Chi è nato mortale genera come è lui stesso, l'immortale ugualmente, quello che è. Il corruttibile genera il corruttibile, l'incorruttibile genera l'incorruttibile; ciò che è soggetto a corruzione, sul piano della corruttibilità, ciò che non vi è soggetto sul piano della incorruttibilità, al segno che uno è quello che è l'altro, un tutto unico. Sapete che quando ho premesso la recitazione del Simbolo, così ho detto e così dovete credere: Crediamo in Dio Padre onnipotente e in Gesù Cristo, Unico suo Figlio 5. Già quando dico Unico dovete intenderlo onnipotente; non avviene infatti che Dio Padre fa quello che vuole e Dio Figlio non fa quello che vuole. Unica è la volontà del Padre e del Figlio perché unica è la natura. Non si può infatti fare una separazione neanche minima tra la volontà del Figlio e la volontà del Padre, come da Dio a Dio: sono ambedue lo stesso Dio. Non c'è un Onnipotente e un altro Onnipotente. Sono ambedue lo stesso Onnipotente.

Il Padre e il Figlio sono un solo Dio.

2. 4. Non introduciamo certo due dèi [nella fede], come alcuni [eretici] li introducono e dicono: " Dio Padre e Dio Figlio: il Dio Padre è maggiore, il Dio Figlio minore ". Come è possibile " due "? Due dèi? Vergógnati a dirlo, vergógnati a crederlo! Tu dici: " Signore Dio Padre ", e dici anche: " Signore Dio Figlio ". Lo stesso Figlio dice: Nessuno può servire a due padroni 6. Nella famiglia di Dio ci troveremmo forse come in una grande casa dove c'è un padre di famiglia che ha un figlio e possiamo dire: " Il padrone più grande, il padrone più piccolo "? Lungi da noi tale pensiero. Se voi ammettete qualcosa di simile, ponete idoli nell'anima. Respingete del tutto questa opinione. Prima credete, poi cercate di capire. E` un dono di Dio, non certo prerogativa dell'umana fragilità, poter capire subito, appena creduto. Tuttavia se ancora non capite, credete: In Dio unico Padre, in Cristo Dio, Figlio di Dio. Forse due? No, un solo Dio. E come due possono essere detti: un solo Dio? In che modo? Te ne stupisci? Negli Atti degli Apostoli è scritto: Coloro che erano venuti alla fede avevano un cuore solo e un'anima sola 7. Molte erano le persone ma la fede le aveva rese tutte una sola. Migliaia erano: si amavano ed è allora che i molti sono [divenuti] uno. Amavano Dio con fuoco di carità e, da una moltitudine che erano, raggiunsero la bellezza dell'unità. Se la carità rese una tale pluralità di anime un'anima sola, quale mai sarà la carità in Dio, dove non c'è alcuna disparità, ma una totale uguaglianza? Se tra gli uomini sulla terra ci poté essere tanta carità, così da fare di tante un'anima sola, lì dove il Padre fu sempre inseparabile dal Figlio e il Figlio dal Padre non potevano essere, di due, che un solo Dio. Quelle anime, che erano molte, poterono essere chiamate un'anima sola. Dio, dove c'è la somma, ineffabile unione, può essere detto un solo Dio e non due dèi.

Anche il Figlio è onnipotente.

2. 5. Il Padre fa quello che vuole, il Figlio fa quello che vuole. Non pensate che il Padre sia onnipotente e il Figlio no. Sarebbe un errore. cancellatelo, si stacchi dalla vostra mente. Non sia bevuto con la bevanda della fede, e, se qualcuno di voi lo avesse bevuto, lo rigetti. E` onnipotente il Padre, è onnipotente il Figlio. Se l'Onnipotente non generò un Onnipotente, non generò un vero Figlio. E che diremo, fratelli, di una condizione di superiorità del generante rispetto al generato? Che cosa vuol dire: " generò "? E` un fatto che un uomo più grande genera un figlio più piccolo e, come quello invecchia, costui cresce e giunge, solo col crescere, all'aspetto del padre. Il Figlio di Dio invece, dal momento che non cresce perché Dio non può invecchiare, è nato perfetto. Se dunque è nato perfetto, e non è stato mai minore, è uguale. Perché sappiate che dall'Onnipotente è nato l'Onnipotente, ascoltate lui stesso che è la Verità. Ciò che la Verità dice di se stessa, questo è il vero. Che cosa dice la Verità? Che cosa di ce il Figlio, che è la Verità 8? Dice: Quel che fa il Padre, anche il Figlio lo fa 9. Il Figlio è onnipotente, dal momento che fa tutto ciò che vuole. Se il Padre facesse qualcosa che il Figlio non può fare, il Figlio avrebbe affermato il falso quando disse: Quello che fa il Padre, anche il Figlio lo fa. Ma poiché il Figlio disse il vero, credete alle parole: Quello che fa il Padre, anche il Figlio lo fa. E avete creduto nel Figlio onnipotente. Non avete pronunziato questa parola nel Simbolo, tuttavia è ciò che avete espresso quando avete professato di credere in un unico stesso Dio. Ha forse qualcosa il Padre che non abbia anche il Figlio? Questo lo affermano gli eretici blasfemi ariani, non io. Io invece vi sto dicendo che se il Padre avesse qualche attributo che non ha anche il Figlio, il Figlio mentirebbe quando dice: Tutto quello che il Padre possiede è mio 10. Molte, innumerevoli sono le testimonianze dalle quali scaturisce che il Figlio, vero Dio, è Figlio del Padre, e che Dio Padre generò un Figlio vero Dio, e che il Padre e il Figlio sono un unico Dio.

Nascita umana e morte di Cristo.

3. 6. Ma ora vediamo che cosa ha fatto per noi questo Figlio unico di Dio Padre onnipotente, che cosa ha sopportato per noi. Egli è nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria 11. Egli, così grande Dio, uguale al Padre, è nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria: umile per risanare i superbi. L'uomo volle esaltarsi e cadde. Dio si abbassò e lo risollevò. Che cos'è l'umiltà di Cristo? E` Dio che diede la mano all'uomo caduto. Noi siamo caduti, egli si è abbassato [fino a noi]. Noi giacevamo a terra. Egli si è chinato su di noi. Aggrappiamoci a lui e rialziamoci, per non incorrere nella punizione. Dunque il suo abbassarsi consiste in questo: che è nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria. La stessa sua natività umana è al tempo stesso umile e sublime: umile perché è nato uomo da uomini; sublime perché dalla Vergine. Vergine concepì, Vergine partorì, e dopo il parto rimase Vergine.

3. 7. Segue: Patì sotto Ponzio Pilato. Quando Cristo patì, Ponzio Pilato teneva il governo della regione ed era giudice. Col nome di quel giudice venne indicato il tempo in cui Cristo patì: sotto Ponzio Pilato. Quando si dice: patì, si aggiunge: fu crocifisso e sepolto 12. Ma chi patì? E che cosa patì e per chi? A patire fu il Figlio di Dio unico, il nostro Signore. E patì questo: fu crocifisso e sepolto. Per chi? Per empi e peccatori. Grande condiscendenza e grazia. Che cosa renderò al Signore per tutto quello che mi ha dato? 13

Nascita coeterna al Padre.

3. 8. E` nato prima del tempo, prima di tutti i secoli. Nato prima. Ma prima di che cosa, dove non c'è un prima? Certo non vorrete pensare che ci sia stata una porzione di tempo prima della nascita di Cristo dal Padre. Parlo di quella nascita per cui è Figlio di Dio onnipotente, è unico Signore nostro; di questa parlo. Non pensate che l'inizio del tempo sia in questa nascita. Non pensate che ci sia stato un intermezzo di eternità in cui c'era il Padre e non c'era il Figlio. Da quando c'è il Padre, da allora c'è il Figlio. E come si può dire: " da quando " se non c'è inizio? Dunque: il Padre da sempre, senza inizio, il Figlio da sempre, senza inizio. E allora " Come può essere nato - mi potresti ribattere - se non ha inizio? ". Dall'eterno, coeterno. Non ci fu mai il Padre senza che ci fosse il Figlio, e tuttavia il Figlio è generato dal Padre. Dove possiamo trovare qualche paragone? Siamo tra cose terrene, tra creature visibili. Provi la terra a darmi un paragone. Non me lo dà. Provino le onde del mare. Nulla. Provi qualche animale. Non lo può neppure lui. Nel regno animale c'è bensì chi genera e chi è generato, ma prima, nel tempo, c'è il padre e poi nasce il figlio. Cerchiamo qualcosa di coevo e consideriamolo coeterno. Se potessimo per assurdo trovare un padre coevo di suo figlio e un figlio coevo di suo padre, potremmo pensare a Dio Padre, coevo di suo Figlio e a Dio Figlio, coeterno a suo Padre. Sulla terra possiamo trovare qualcuno di cui si possa dire " coevo ", non possiamo trovare nessuno di cui si possa dire " coeterno ". Intendiamo " coevo " e crediamo " coeterno ". State bene attenti, qualcuno può dire: " Come si può trovare un padre coevo del suo figlio o un figlio coevo del suo padre? ". Per poterlo generare il padre lo precede nell'età; perché nasca il figlio lo segue nell'età. E qui invece abbiamo il Padre coevo al Figlio, e il Figlio al Padre. Come può essere? Vi proporrò un'analogia: il fuoco come padre, lo splendore di luce che ne emana, come figlio; ecco trovati i coevi. Da quando il fuoco ha cominciato ad essere fuoco, subito ha generato la luce, né ci fu il fuoco prima della luce, né la luce dopo il fuoco. E se ci interroghiamo chi sia il generante, se è il fuoco che genera la luce o la luce il fuoco, subito, per istinto naturale e per l'intelligenza che è nelle vostre menti, proclamereste: " E` il fuoco che genera la luce, non la luce il fuoco ". Ecco un padre che dà inizio, ecco un figlio insieme, né precedente, né seguente. Ecco dunque un padre all'inizio, e un figlio ugualmente all'inizio. Se vi ho mostrato che un padre è all'inizio e un figlio pure all'inizio, ebbene credete che il Padre non ha inizio, e con lui neppure il Figlio ha inizio; l'uno eterno, l'altro coeterno. Se voi seguirete il progresso del ragionamento, capirete. Fate in modo di seguirlo. Voi dovete nascere, ma poi dovete crescere, perché nessuno all'inizio è perfetto. E invece al Figlio di Dio fu lecito nascere perfetto, perché è nato al di fuori del tempo, coeterno al Padre, anteriore non di un periodo di tempo ma dall'eternità a tutte le cose. Questo nato coeterno al Padre della cui generazione il profeta disse: Chi narrerà la sua generazione? 14 è nato fuori del tempo dal Padre ed è nato dalla Vergine nella pienezza dei tempi 15. Questa nascita sì era stata preceduta da un periodo di tempo. Egli nacque in un tempo opportuno, quando volle lui, quando sapeva di voler nascere. Senza dubbio non è nato senza volerlo. Nessuno di noi nasce in quanto lo vuole, e nessuno di noi muore quando lo vuole. Egli invece nacque quando volle, morì quando volle; nacque nella maniera in cui volle, da una Vergine, morì nella maniera in cui volle, su una croce. Fece qualunque cosa volle: perché era tale uomo che era anche Dio, ma Dio celato. Dio aveva assunto l'umanità, l'umanità era stata assunta, un solo Cristo Dio e Uomo.

Alla morte segue la resurrezione.

3. 9. Della sua croce come parlerò, che cosa dirò? Scelse il peggiore genere di morte perché i suoi martiri non temessero appunto alcun genere di morte. Rivelò la sua dottrina facendosi uomo, mostrò un esempio di pazienza sulla croce. Qui, nella croce, consiste la sua opera perché lui crocifisso è l'esempio dell'opera; il premio poi dell'opera è la risurrezione. C'insegnò, sulla croce, che cosa dobbiamo giungere a sopportare; c'insegnò, nella risurrezione, che cosa dobbiamo sperare. In una parola, con il suo esempio ci ha detto, come un sommo presidente dei giochi: " Fa' e prendi, compi l'opera ed abbi il premio, combatti nella gara e avrai la corona di vittoria ". Che cosa è l'opera? L'ubbidienza. Qual è il premio? La risurrezione senza più morte. Perché ho aggiunto: " senza più morte "? Perché anche Lazzaro risorse e poi morì [di nuovo]. Cristo invece è risuscitato e non muore più, la morte non ha più potere su di lui 16.

La pazienza senza calcolo di Giobbe. Sua santità.

3. 10. La Scrittura dice: Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e avete visto la sorte finale che gli riservò il Signore 17. Quando si legge quante pene ha dovuto sopportare Giobbe, si inorridisce, ci si spaventa, si trema. Ma quale fu il suo premio? Il doppio di quello che aveva perduto. Tuttavia l'uomo non eserciti la pazienza in vista di beni temporali, dicendo a se stesso: " Coraggio, sopporto il danno. Il Signore mi ricompenserà così come ha restituito il doppio dei figli a Giobbe. Giobbe ricevette il doppio di tutto e generò tanti figli quanti ne aveva seppelliti. Non gli furono forse raddoppiati? ". Certo, perché anche questi vivevano [nella vita eterna]. Nessuno dica: " Sopporterò le tribolazioni e il Signore mi restituirà i beni come ha fatto con Giobbe ". Non sarebbe qui in gioco la pazienza, ma il calcolo dell'avidità. Se quel santo infatti non avesse avuto la pazienza non sarebbe riuscito a sopportare con fortezza le avversità che gli piombavano addosso. Non avrebbe avuto dal Signore la testimonianza che invece ebbe. Disse di lui il Signore: Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra, uomo irreprensibile, il vero devoto a Dio 18. Quale testimonianza, fratelli, ricevette da Dio questo uomo santo! E tuttavia la cattiva moglie cercava, con i suoi malvagi argomenti, di trarlo in errore ed era simile a quel serpente che nel paradiso terrestre ingannò il primo uomo creato da Dio 19. Così ora, suggerendo bestemmie, credeva di poter far cadere quell'uomo caro a Dio. Quanti mali sopportò quell'uomo, fratelli! Chi ne potrebbe sopportare di uguali? Nella sua sostanza, nella sua casa, nei figli, nel suo fisico, nella sua stessa moglie tentatrice che gli era rimasta. [Il diavolo] a un certo punto gli avrebbe tolto anche costei, che gli era rimasta, se non se la fosse serbata come aiutante, in quanto era riuscito a debellare anche il primo uomo per mezzo di Eva. Aveva serbato Eva. Quante cose soffrì! Perse tutto quello che aveva. La sua casa crollò e magari essa sola! Essa schiacciò i figli sotto le macerie. Ma poiché in lui la pazienza aveva grande spazio, sentite quale fu la sua risposta: Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Come al Signore piacque, così è avvenuto; sia benedetto il nome del Signore 20. Gli tolse quel che gli aveva dato. Forse che perì lui che aveva dato? Giobbe ammise che Dio gli aveva tolto i beni, ma si comportò come se dicesse: " Mi ha tolto tutto, mi tolga pure tutto, mi lasci nudo ma si serbi lui per me. Che cosa mi mancherà infatti se avrò Dio, o che cosa mi giovano tutte le altre cose se non avrò Dio? ". Fu colpita la sua carne, fu colpito con ulcere dalla testa sino ai piedi, colava giù l'umore corrotto, formicolava di vermi ed egli si mostrava saldo nel suo Dio, in lui era fisso 21. Quella moglie, aiutante del diavolo, non consolatrice del marito, voleva persuaderlo alla bestemmia: Fino a quando vorrai sopportare questo e quello? Di' qualcosa contro Dio e muori 22. Giobbe dunque, poiché era stato umiliato, doveva essere esaltato. E così fece il Signore per dare un esempio agli uomini. In cielo, poi, al suo servo destinò premi maggiori. Dunque esaltò Giobbe umiliato e umiliò il diavolo che si era esaltato perché egli abbatte l'uno ed innalza l'altro 23. Fratelli carissimi, quando qualcuno qui patisce qualcuna di tali tribolazioni, non si aspetti la ricompensa qui e se patisce qualche danno non abbia intenzione di ricevere il doppio, quando dice: Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Come al Signore piacque, così avvenne; sia benedetto il suo nome. Dio loda la pazienza non il calcolo dell'avidità, perché se vuoi ricevere il doppio di quello che hai perduto e per questo lodi Dio, lodi non per amore ma per cupidigia. Non puoi in partenza porti davanti l'esempio di quel sant'uomo. Ti inganneresti. Quando Giobbe sopportava tutti quei dolori, non contava sulla ricompensa del doppio di quello che aveva. Si può notare quello che dico sia nella sua prima testimonianza, quando subì danni e fece i funerali ai figli, sia nella seconda quando già pativa tormenti nella sua carne. Queste sono le parole della sua prima testimonianza: Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Come al Signore piacque, così è avvenuto; sia benedetto il nome del Signore. Avrebbe potuto dire: " Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; può darmi di nuovo quello che mi ha tolto, può ridarmi più di quel che mi ha tolto ". Ma non disse così. Disse: Come al Signore piacque, così avvenne. Cioè: " Poiché piace a lui, deve piacere anche a me; ciò che piacque al padrone buono non dispiaccia al servo a lui sottomesso; ciò che piacque al medico non dispiaccia al malato ". E nel secondo caso sentì la sua testimonianza. Disse alla moglie: Hai parlato come una donna stolta. Se da Dio accettiamo il bene perché non dovremmo accettare il male 24? Non aggiunse quello che, se l'avesse detto, era pur vero: " Il Signore può far ritornare come prima la mia carne, può moltiplicare quello che ci ha tolto ", per non sembrare che sopportasse quei mali in vista di questa speranza. Queste cose non disse, queste cose non sperò. Ma il Signore le diede ugualmente a lui che non ci contava perché noi fossimo ammaestrati; perché imparassimo che il Signore gli era vicino. Perché se non gli avesse restituito quei beni, noi non saremmo riusciti a vedere la ricompensa che gli teneva nascostamente in serbo. Perciò la sacra Scrittura dice, esortando alla pazienza e all'aspettativa di ricompensa per la vita futura, non per la presente: Avete udito parlare della pazienza di Giobbe, e avete visto la fine del Signore [sulla terra] 25. Perché sottolinea la pazienza di Giobbe, e non dice: " Avete visto la fine dello stesso Giobbe "? Avresti rinfocolato la tua avidità nella prospettiva di avere il doppio. Avresti detto: " Sopporto, grazie a Dio. Avrò il doppio come Giobbe ". La pazienza di Giobbe, la fine del Signore [sulla terra]. Conosciamo la pazienza di Giobbe, conosciamo la fine del Signore. Parole del Signore sulla croce furono: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato 26? Sono le parole del Signore sulla croce. Lo abbandonò riguardo alla presente felicità, non lo abbandonò in quanto all'eterna immortalità. La fine del Signore è questa: i Giudei lo arrestano, i Giudei lo insultano, lo legano, lo coronano di spine, lo imbrattano di sputi, lo flagellano, lo coprono di scherni, lo crocifiggono, lo trapassano con la lancia, e infine lo seppelliscono; ed è quasi abbandonato. E` mai possibile? Si facevano beffe di lui. Perciò abbi pazienza per poter risorgere e non morire, come Cristo non morire più. Così infatti noi leggiamo: Cristo, risuscitato dai morti non muore più 27.

Che significa: "Siede alla destra del Padre".

4. 11. Ascese al cielo. Credetelo. Siede alla destra del Padre 28. Credetelo. Per sedere intendete abitare, così come quando diciamo di un uomo: " Ha risieduto in quel luogo per tre anni ". Lo dice anche la Scrittura: che è risieduto un tale in città per un determinato tempo. Vuol dire forse che sedeva e che mai si alzò? Anche le abitazioni degli uomini sono dette " sedi ", ma non per questo vi si sta seduti. Ci si alza, si cammina. Non si sta seduti e tuttavia si chiamano " sedi ". Così intendete l'abitare di Cristo alla destra del Padre: è lì. Ma non andate pensando: " Che cosa fa? ". Non cercate quello che non si può trovare. E` lì. Vi basti questo. E` beato e per la sua beatitudine gli viene il nome di " destra del Padre ", per il fatto che appunto " destra del Padre " significa felicità. Se noi volessimo intendere in modo materiale dovremmo dire che se egli siede alla destra del Padre, il Padre sarà a sinistra. E` mai lecito che ce li figuriamo così? Il Figlio a destra, il Padre a sinistra? Là è tutto destra perché non c'è alcuna infelicità.

Il Giudizio.

4. 12. Da lì verrà a giudicare i vivi e i morti 29: i vivi, cioè coloro che siano allora ancora in vita; i morti, cioè quelli che sono morti prima [del giudizio]. Si potrebbe anche interpretare così: vivi, i giusti; morti, gli iniqui. Dio infatti giudica ambedue le categorie, dando ad ognuno la retribuzione dovuta. Ai giusti dirà nel giudizio: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo 30. A questo preparatevi, questo sperate, per questo vivete e vivete così perché credete, perché siete stati battezzati, perché vi si possa dire: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il regno che è stato preparato per voi dalla fondazione del mondo. E a quelli che stanno alla sua sinistra che dice? Andate nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli 31. Così saranno giudicati da Cristo i vivi e i morti. Abbiamo parlato della prima nascita di Cristo, quella fuori del tempo e di quella avvenuta dalla Vergine nella pienezza dei tempi; abbiamo parlato della passione di Cristo, abbiamo parlato del giudizio finale di Cristo. Abbiamo svolto tutti gli argomenti riguardo a Cristo, unico Figlio di Dio, nostro Signore. Ma la Trinità non è ancora stata esposta completamente.

Lo Spirito Santo.

5. 13. Segue nel Simbolo: E nello Spirito Santo 32. Questa Trinità è un solo Dio, una sola natura, una sola sostanza, una sola potenza: somma uguaglianza con nessuna divisione, nessuna diversità, perpetuo amore. Volete sapere quale Dio è lo Spirito Santo? Battezzatevi e sarete il suo tempio. L'Apostolo dice: Non sapete voi che il vostro corpo è tempio in voi dello Spirito Santo, che avete da Dio? 33 Dio ha un tempio. Infatti a Salomone, re e profeta, fu comandato di costruire un tempio a Dio. Se avesse innalzato un tempio al sole o alla luna o a qualche stella, o a qualche angelo, Dio lo avrebbe condannato. Ma in quanto egli edificò un tempio a Dio mostrò di venerare Dio. Con che materiali lo costruì? Con legno e pietre, perché Dio volle, per mezzo del suo servo, farsi un'abitazione in terra, per esservi pregato, per dimorarvi. Per cui disse il beato Stefano: Salomone gli edificò una casa, ma l'Altissimo non abita in costruzioni fatte da mano d'uomo 34. Se dunque i nostri corpi sono tempio dello Spirito Santo, quale Dio ha costruito il tempio allo Spirito Santo? Ma si tratta di Dio! Se infatti i nostri corpi sono tempio dello Spirito Santo, chi ha costruito i nostri corpi ha costruito anche il tempio allo Spirito Santo. Osservate che cosa dice l'Apostolo: Dio ha composto il corpo conferendo maggior onore a ciò che ne aveva di meno 35, parlando delle diverse membra, affinché non vi fossero divisioni nel corpo. Dio ha creato il nostro corpo. Come potrebbe non averlo creato lui se ha creato anche l'erba? Come ci teniamo sicuri che ha creato l'erba? Chi veste, crea. Leggi il Vangelo: Se Dio veste così l'erba del prato che oggi c'è e domani è buttata nel forno 36. Chi veste, crea dunque. E senti l'Apostolo: Stolto, ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco, di grano per esempio o di altro genere. Dio gli dà un corpo come ha stabilito e a ciascun seme il proprio corpo 37.Se Dio dunque costruisce i nostri corpi, se Dio costruisce le nostre membra e se i nostri corpi sono tempio dello Spirito Santo, non dubitate che lo Spirito Santo è Dio ma non aggiungetelo come un terzo dio, perché il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un unico Dio. Così dovete credere.

La Chiesa.

6. 14. Alla proclamazione di fede nella Trinità segue: La santa Chiesa 38. E` stato detto così di Dio e del suo tempio. Il tempio di Dio, che siete voi - dice l'Apostolo - è santo 39. Ma la stessa Chiesa è santa, una, vera, cattolica, che combatte contro tutte le eresie; combattere può, ma non essere vinta. Tutte le eresie sono uscite da lei ma come gli inutili tralci tagliati via dalla vite. Essa rimane sulla sua radice, nella sua vite, nella sua carità. Le porte degli inferi non prevarranno su di lei 40.

La remissione dei peccati.

7. 15. La remissione dei peccati 41. Realizzate in voi in modo completo le verità del Simbolo, quando vi battezzate. Nessuno dica: " Ho commesso la tal colpa. Forse non mi sarà perdonata ". Pensi così perché l'hai commessa e perché è grave? Ma dimmi pure che hai compiuto qualcosa di mostruoso, di grave, di orrendo, che faccia inorridire il solo pensarlo. Che cosa puoi aver fatto? Forse hai ucciso Cristo? Non c'è nulla di peggio di questo misfatto, perché non c'è nulla di meglio di Cristo. Nefanda enormità uccidere il Cristo. Tuttavia i Giudei lo uccisero e molti di loro poi credettero in lui e bevvero il suo sangue: fu loro perdonato il peccato che avevano commesso. Quando sarete battezzati, mantenete una vita buona nei precetti di Dio, per custodire il Battesimo sino alla fine. Non vi dico che sia possibile vivere qui senza peccato: vi sono i peccati veniali, di cui non è priva questa vita [mortale]. Per tutti i peccati c'è il Battesimo, per quelli leggeri, dai quali non possiamo essere esenti, c'è la preghiera. Come dice la preghiera? Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori 42. Se una volta sola siamo purificati dal Battesimo, ogni giorno possiamo essere purificati dalla preghiera. Ma non vogliate commettere di quelle colpe che inevitabilmente vi separano dal Corpo di Cristo; lungi da voi! Coloro che voi vedete fare pubblica penitenza, hanno commesso delitti: adultèri o altri grossi misfatti, perciò fanno penitenza. Se infatti avessero commesso colpe leggere, basterebbe a cancellarli la preghiera quotidiana.

In tre modi vengono rimessi i peccati.

8. 16. Dunque in tre modi nella Chiesa vengono rimessi i peccati: nel battesimo, nella preghiera e nell'umiltà, maggiore, della [pubblica] penitenza. Tuttavia Dio non perdona che ai battezzati. Quando? Al momento del battesimo. Quando poi i peccati sono perdonati a chi prega e a chi fa penitenza, si tratta di gente che ha già ricevuto il Battesimo. Diversamente è come se si dicesse: Padre nostro 43 da chi non è ancora nato. Nei catecumeni, finché sono tali, restano tutti i loro peccati. Se così avviene per i catecumeni, quanto più per i pagani! Quanto più per gli eretici! E tuttavia non rinnoviamo il Battesimo agli eretici. Perché? Perché essi hanno il Battesimo come il disertore ha un marchio. Come un marchio hanno il Battesimo, ma per la condanna, non per la vittoria. E se il disertore pentito ricomincia a fare il suo servizio militare, nessuno penserebbe di rinnovargli il marchio.

La nostra resurrezione.

9. 17. Crediamo anche nella risurrezione della carne, di cui c'è il precedente in Cristo, perché il corpo speri che avvenga quello che è avvenuto nel suo capo. Il capo della Chiesa è Cristo, la Chiesa è il corpo di Cristo. Il nostro Capo è risorto, è asceso al cielo; dove è il capo lì ci sono anche le membra. Come sarà questa risurrezione? Perché non creda qualcuno che sia come quella di Lazzaro, perché ben si sappia che non è così, è stato aggiunto: nella vita eterna 44. Vi rinnovi Dio, Dio vi mantenga e vi custodisca; Dio vi conduca a lui, che è la Vita eterna. Amen.



Note:

1 - Rm 10, 10.
2 - Es symbolo Apostol.
3 - 2 Tm 2, 13.
4 - Sal 145, 6.
5 - Es symbolo apostol.
6 - Mt 6, 24.
7 - At 4, 32.
8 - Cf. Gv 14, 6.
9 - Gv 5, 19.
10 - Gv 16, 15.
11 - Es symbolo apostol.
12 - Es symbolo apostol.
13 - Sal 115, 12.
14 - Is 53, 8.
15 - Cf. Gal 4, 4.
16 - Rm 6, 9.
17 - Gc 5, 11.
18 - Gb 1, 8.
19 - Cf. Gn 3, 1-6.
20 - Gb 1, 21.
21 - Cf. Gb 2, 7-8.
22 - Gb 2, 9.
23 - Lc 14, 11.
24 - Gb 2, 10.
25 - Gc 5, 11.
26 - Sal 21, 2.
27 - Rm 6, 9.
28 - Es symbolo apostol.
29 - Es symbolo apostol.
30 - Mt 25, 34.
31 - Mt 25, 41.
32 - Es symbolo apostol.
33 - 1 Cor 6, 19.
34 - At 7, 47-48.
35 - 1 Cor 12, 24.
36 - Mt 6, 30; Lc 12, 28.
37 - 1 Cor 15, 36-38.
38 - Es symbolo apostol.
39 - 1 Cor 3, 17.
40 - Cf. Mt 16, 18.
41 - Es symbolo apostol.
42 - Mt 6, 12.
43 - Mt 6, 9.
44 - Es symbolo apostol.


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giovedì 1 maggio 2025

La Nuova Evangelizzazione, riflessioni dell'Arcivescovo Rino Fisichella


LA NUOVA EVANGELIZZAZIONE

Riflessioni sulla Lettera Apostolica «Ubicumque et semper» di Papa Benedetto XVI

dell'Arcivescovo Rino Fisichella




La Chiesa esiste per portare in ogni tempo il Vangelo a ogni persona, dovunque si trovi. Il comando di Gesù è talmente cristallino da non consentire fraintendimenti di sorta né alibi alcuno. Quanti credono nella sua parola sono inviati nelle strade del mondo per annunciare che la salvezza promessa ora è divenuta realtà. L'annuncio deve coniugarsi con uno stile di vita che permette di riconoscere i discepoli del Signore dovunque si trovino. Per alcuni versi, l'evangelizzazione si riassume in questo stile che contraddistingue quanti si pongono alla sequela di Cristo. La carità come norma di vita non è altro che la scoperta di ciò che dà senso all'esistenza perché la permea fin nei suoi meandri più intimi di quanto il Figlio di Dio fatto uomo ha vissuto in prima persona.

Si potrà discutere a lungo sul senso dell'espressione "nuova evangelizzazione". Chiedersi se l'aggettivo determini il sostantivo ha una sua ragionevolezza, ma non intacca la realtà. Il fatto che la si chiami "nuova" non intende qualificare i contenuti dell'evangelizzazione, ma la condizione e le modalità in cui essa viene fatta. Benedetto XVI nella lettera apostolica Ubicumque et semper sottolinea con ragione che ritiene opportuno "offrire delle risposte adeguate perché la Chiesa intera si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione".

Qualcuno potrebbe insinuare che decidersi per una nuova evangelizzazione equivale a giudicare l'azione pastorale svolta in precedenza dalla Chiesa come fallimentare per la negligenza posta o per la scarsa credibilità offerta dai suoi uomini. Anche questa considerazione non è priva di una sua plausibilità, ma si ferma al fenomeno sociologico preso nella sua frammentarietà, senza considerare che la Chiesa nel mondo presenta tratti di santità costante e di testimonianze credibili che ancora ai nostri giorni sono segnate con il dono della vita. Il martirio di molti cristiani non è diverso da quello offerto nel corso dei secoli della nostra storia, eppure è veramente nuovo perché provoca gli uomini del nostro tempo spesso indifferenti a riflettere sul senso della vita e sul dono della fede.

Quando si smarrisce la ricerca del genuino senso dell'esistenza, inoltrandosi per sentieri che immettono in una selva di proposte effimere, senza che si comprenda il pericolo in agguato, allora è giusto parlare di nuova evangelizzazione. Essa si pone come vera provocazione a prendere sul serio la vita per orientarla verso un senso compiuto e definitivo che trova unico riscontro nella persona di Gesù di Nazareth. Lui, il rivelatore del Padre e sua rivelazione storica, è il Vangelo che ancora oggi annunciamo come risposta all'interrogativo che inquieta gli uomini da sempre. Mettersi al servizio dell'uomo per comprendere l'ansia che lo muove e proporre una via d'uscita che gli dia serenità e gioia è quanto si raccoglie nella bella notizia che la Chiesa annuncia.

Una nuova evangelizzazione, quindi, perché nuovo è il contesto in cui vive il nostro contemporaneo sballottato spesso qua e là da teorie e ideologie datate. Per quanto paradossale possa sembrare, si preferisce imporre l'opinione piuttosto che indirizzare verso la ricerca della verità.

L'esigenza di un linguaggio nuovo, in grado di farsi comprendere dagli uomini di oggi, è un'esigenza da cui non si può prescindere, soprattutto per il linguaggio religioso così improntato a una specificità tale da risultare spesso incomprensibile. Aprire la "gabbia del linguaggio" per favorire una comunicazione più efficace e feconda è un impegno concreto perché l'evangelizzazione sia realmente nuova.

 

Un'icona a cui il nuovo dicastero intende dedicarsi, trova riscontro nella Sagrada Familia di Gaudí. Chi la osserva nella sua pregnanza architettonica trova la voce di ieri e quella di oggi. A nessuno sfugge che è una chiesa, spazio sacro che non può essere confuso con nessun'altra costruzione. Le sue guglie si stagliano verso l'alto, obbligando a guardare il cielo. I suoi pilastri non hanno capitelli ionici o corinzi e, tuttavia, li richiamano anche se consentono di andare oltre per rincorrere un intreccio di archi tale da far pensare a una foresta dove il mistero ti invade e, senza sopprimerti, ti offre serenità.

La bellezza della Sagrada Familia sa parlare all'uomo di oggi pur conservando i tratti fondamentali dell'arte antica. La sua presenza sembra contrastare con la città fatta di palazzi e strade che si rincorrono mostrando la modernità a cui siamo inviati. Le due realtà convivono e non stonano, anzi, sembrano fatte l'una per l'altra; la chiesa per la città e viceversa. Appare evidente, comunque, che la città senza quella chiesa sarebbe priva di qualcosa di sostanziale, evidenzierebbe un vuoto che non può essere colmato da altro cemento, ma da qualcosa di più vitale che spinge a guardare in alto senza fretta e nel silenzio della contemplazione.



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domenica 13 aprile 2025

Ognuno di noi è icona di Cristo, di Suor Mirella Caterina Soro


OGNUNO DI NOI E' ICONA DI CRISTO

Suor Mirella Caterina Soro
delle contemplative domenicane di Pratovecchio



Non sono un’intenditrice di iconografia. Mi piace, però, pregare di fronte a un’icona: guardo il Cristo che vi è dipinto, ma soprattutto mi sento guardata, cercata. Non è un «senso di persecuzione», quello che mi prende, ma una grande consapevolezza di essere amata. L’icona mi aiuta a mettermi alla Sua presenza, a diventare consapevole di ciò che avviene fra me e Lui.

Una mattina, mentre leggevo la Scrittura, ho alzato lo sguardo verso l’icona del Cristo Pantocrator, che mi stava davanti, e ho pensato, ad un tratto, che ogni persona è come un’icona: ognuno, infatti, è il Cristo che viene a bussare alla nostra porta. Gli altri, infatti, ci «guardano», con la loro vita, e attendono di essere guardati. Gesù ha detto che lo avremmo incontrato nel malato, nel prigioniero, nel più piccolo dei suoi fratelli. D’altra parte, a volte ci può sembrare che questa «icona vivente» del Cristo deformi un po’ la sua vera immagine: alcune persone forse sono fastidiose, altre pesanti, altre ci fanno del male, altre non ci comprendono; alcuni «predicano bene e razzolano male», altri fanno scelte sbagliate e non possono, a nostro giudizio, essere un’icona del Signore. Sulla croce, però, Cristo ebbe un volto sfigurato, per aiutarci a incontrarlo in ogni fratello, anche in quello meno amabile. Anzi, è proprio l’umanità ferita il luogo in cui Cristo desidera abitare: è lì che lui vuole essere amato, cercato e, attraverso il nostro amore, guarito. E mentre vediamo la ferita del fratello, è impossibile non ricordarci della nostra: l’umanità ferita, infatti, siamo noi. Siamo icone di Cristo gli uni per gli altri.

Nelle persone che incontro, Cristo mi guarda, mi cerca: è lì che io contemplo il suo volto glorioso e il suo volto sfigurato. Di fronte a un’icona, poi, come davanti a uno specchio, è impossibile distogliere lo sguardo da noi stessi. L’«icona vivente di Cristo», che è ogni persona che incontro sul mio cammino, è anch’essa uno specchio che mi aiuta a capire chi sono io. L’altro, infatti, mi è di stimolo per uscire dai miei egoismi e per capire quale sia la mia vera immagine, il mio vero essere. Nei giudizi dell’altro, poi, positivi o negativi, giusti o ingiusti che siano, c’è sempre un pizzico di verità: se sono onesto, tutto devo accogliere come dono, tutto mi aiuta a riflettere, a interrogarmi e a crescere come persona e come cristiano. Lasciandomi guardare dagli altri, quindi, e conoscendomi meglio, ho l’opportunità di diventare io stesso icona sempre più fedele del Cristo, per ogni fratello che incontro nella mia strada. Le mie mani, i miei piedi, il mio sguardo e il mio cuore saranno, allora, le mani, i piedi, lo sguardo e il cuore con cui Cristo, oggi, cura le ferite dell’uomo, lo guarda, lo attira a sé e lo introduce nel mistero ineffabile del suo Amore Trinitario.



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mercoledì 5 marzo 2025

BENEDETTO CROCE : Arte, intuizione, espressione, a cura di Claudia Bianco


BENEDETTO CROCE : Arte, intuizione, espressione
a cura di Claudia Bianco



Nella primavera del 1900 Benedetto Croce (1866-1952) legge nell’Accademia Pontaniana di Napoli le Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Accompagnate da un’ampia parte storica e profondamente rimaneggiate, le Tesi diventeranno due anni dopo l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Teoria e Storia (1902) , a cui faranno seguito il Breviario di Estetica (1912) , l’Aesthetica in nuce (1928) e diversi scritti di critica e storia letteraria, tra cui i saggi sulla letteratura italiana dall’Unità ai primi del secolo raccolti nei quattro volumi della Letteratura della Nuova Italia (1914-15) , e testi come La riforma della storia artistica e letteraria (1917) , Poesia e non poesia (1923), i Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1931), Poesia popolare e poesia d’arte (1933), La Poesia (1936). Nell’arco di questa produzione teorica che si misura di volta in volta con i principi fondanti dell’estetica o con l’analisi di singole opere, Croce viene articolando la propria tesi fondamentale, che concepisce l’arte come intuizione ed espressione ,e, come abbiamo visto (vedere Vico) , si richiama alla figura di Giambattista Vico, che per primo avrebbe avuto il merito di proporre una “Logica poetica”, distinta da quella intellettuale, capace di considerare la poesia una forma di conoscenza autonoma rispetto alla filosofia e avente come principio la fantasia.

La genesi della riflessione crociata sull’estetica risale alla memoria del 1893 intitolata La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. In questo testo arte e storia sono definite entrambe “rappresentazione della realtà”, salvo poi differenziarsi in conoscenza di ciò che è meramente possibile (l’arte) e di ciò che è veramente accaduto (la storia). La concezione dell’arte come forma specifica e autonoma di conoscenza e l’intenzione di riconnettere i fatti estetici e artistici alla totalità della vita dello spirito ritornano nelle Tesi e nell’Estetica del 1902 , dove l’arte è identificata con la conoscenza intuitiva , distinta da quella concettuale o logica: “La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è insomma, o produttrice di immagini o produttrice di concetti”. Il dominio dell’arte è dunque quello dell’intuizione dell’individuale e dell’immagine fantastica, un dominio profondamente diverso da quello della logica o della scienza, che procedono per elaborazione di concetti, costruzione di classi, astrazioni, ordinamento di fatti. Conoscenza intuitiva e conoscenza concettuale, studiate rispettivamente dall’Estetica e dalla Logica, si oppongono quindi come momenti distinti, anche se in parte complementari, della sfera teoretica. Analogamente, nell’ambito pratico Croce distingue tra un primo grado (l’attività meramente utile o economica, e un secondo grado (quello dell’attività morale), finendo così per delineare l’impianto generale della Filosofia dello Spirito, sviluppato in seguito, oltre che nell’Estetica , nei Lineamenti di Logica (1905) , nella Logica (1909) e nella Filosofia della Pratica.Economia ed etica (1908).

Affermando la tesi secondo cui l’arte è conoscenza intuitiva, Croce si riallaccia al senso originario del termine estetica come autonoma “scienza della sensibilità” introdotto a metà del Settecento da Baumgarten e, contemporaneamente, si ricollega alla concezione kantiana dell’Estetica trascendentale esposta nella Critica della ragion pura. Come in Kant, così anche in Croce l’estetica si differenzia dalla logica, e l’intuizione dal concetto; se però nella Critica della ragion pura intuizioni e concetti si integrano a vicenda per dar luogo alla sintesi conoscitiva, nell’elaborazione crociata la sfera estetica rimane autonoma rispetto alla logica: vi sono infatti intuizioni “pure” a cui non si mescolano concetti o volizioni, mentre non si può dire il contrario, in quanto non c’è pensiero logico o azione morale che possa prescindere da intuizioni e sentimenti. In quest’ottica, essendo l’intuizione un grado necessario e imprescindibile della vita dello spirito, non ha alcun senso parlare di morte o eliminazione dell’arte: “domandare se l’arte sia eliminabile sarebbe né più né meno come domandare se siano eliminabili la sensazione o l’intelligenza”.

Ma cosa significa, per Croce, intuizione? L’intuizione è apprensione immediata di un contenuto sensibile, opposta all’elaborazione immediata di un contenuto sensibile, opposta all’elaborazione discorsiva prodotta dall’intelletto. E’ presenza di un contenuto ai nostri sensi (un’immagine, un colore, un suono) prima dell’intervento di qualsiasi organizzazione concettuale. L’intuizione si differenzia però sia dalla percezione , in quanto non distingue tra la realtà e l’irrealtà dei propri contenuti, sia dalla sensazione, ossia dalla semplice affezione passiva e meccanica procurataci da qualcosa di esterno. L’intuizione “pura” – ossia scevra di ogni elemento concettuale – plasma e dà forma alle sensazioni, le fissa in immagini senza pronunciarsi sulla loro verità o falsità, le esprime.

Momento fondamentale dell’attività dello spirito, l’intuizione è dunque espressione, forma e sintesi: “Ogni vera intuizione o rappresentazione è, insieme, espressione. Ciò che non si oggettiva in una espressione non è intuizione o rappresentazione, ma sensazione e naturalità. Lo spirito non intuisce se non facendo, formando, esprimendo. Chi separa intuizione da espressione, non riesce mai più a congiungerle”. Come scrive Croce, “ l’atto estetico è forma, e nient’altro che forma”, e proprio nella sua capacità di dar forma al sentimento risiede la funzione catartica dell’arte : “Elaborando le impressioni, l’uomo si libera da esse. Oggettivandole, le distacca da sé e si fa loro superiore. La funzione liberatrice e purificatrice dell’arte è un altro aspetto e un’altra formula del suo carattere di attività. L’attività è liberatrice appunto perché scaccia la passività”. Dalla tesi dell’identità di intuizione ed espressione discende quindi la tesi dell’identità di Estetica e Linguistica generale, contenuta nei titoli delle Tesi e dell’Estetica del 1902: ogni forma espressiva è linguaggio, anche le espressioni figurative o la musica, e il linguaggio è essenzialmente libera creazione . Le categorie grammaticali, le leggi fonetiche, le stesse lingue storico-naturali studiate dalla linguistica, secondo Croce, sono soltanto costruzioni secondarie, che si elevano sul tessuto liberamente creativo dell’attività espressiva di un linguaggio concepito come attività, dinamicità, “creazione spirituale”.

L’arte è dunque essenzialmente intuizione ed espressione. Essa differisce profondamente dalla filosofia, in quanto “filosofia è pensamento logico delle categorie universali dell’essere, e l’arte è intuizione irriflessa dell’essere; e perciò , laddove la prima oltrepassa e risolve l’immagine, l’arte vive nella cerchia di questa come in un suo regno”. Dalla tesi che afferma il carattere intuitivo- espressivo dell’arte e il suo essere parte integrante della vita spirituale, deriva poi una serie di importanti conseguenze per quanto riguarda lo statuto dell’artista, dell’opera d’arte e del bello naturale. Innanzitutto Croce afferma che l’arte differisce quantitativamente, e non qualitativamente, dalle comuni intuizioni. Tutte le intuizioni, potenzialmente, sono arte, e la differenza tra le intuizioni dell’uomo comune e quelle del genio artistico non è di natura, genere, qualità, ma di grado, quantità, estensione. Compito dell’Estetica deve essere, secondo Croce, ricondurre l’arte al complesso della vita spirituale e dell’attività teoretica, rimettendo in discussione ogni gerarchia precostituita e ogni canone tradizionale: “Un epigramma appartiene all’arte: perché no una semplice parola? Una novella appartiene all’arte: perché no una nota cronaca giornalistica? Un paesaggio appartiene all’arte: perché no uno schizzo topografico?”. A questa provocatoria apertura nei confronti delle più diverse forme di espressione, corrisponde però in Croce la tesi della non artisticità della dimensione tecnica e materiale del fare artistico, ossia di ogni processo di fissazione materiale, fisica, delle espressioni. Una volta raggiunta l’espressione adeguata a una data intuizione, l’iscrizione mediante segni o la fissazione su di un supporto non è altro che un’attività estrinseca, che può avere sicuramente chiari fini pratici – legati alla comunicazione, alla conservazione, alla diffusione sociale dell’arte- ma è priva di valore estetico. Le opere d’arte, per Croce, sono sostanzialmente immagini interiori , esistono solo “ nelle anime che le creano o le ricreano”. Alla tecnica artistica e alla componente materiale dell’opera viene così negato ogni senso artistico, in quanto si tratta di qualcosa di estrinseco, di derivato: “Il fatto estetico si esaurisce tutto nell’elaborazione espressiva delle impressioni. Quando abbiamo conquistato la parola interna, concepita netta e viva una figura o una statua, trovato un motivo musicale, l’espressione è nata ed è completa : non ha bisogno d’altro (...) l’opera d’arte (l’opera estetica) è sempre interna; e quella che si chiama esterna non è più opera d’arte”.

Alla svalutazione della tecnica artistica fa seguito una netta svalutazione di tutta una serie di temi tradizionali dell’estetica, come la distinzione tra generi letterari e tra stili, o la riflessione sul bello naturale. Lo studio dei generi letterari, delle figure retoriche, di categorie estetiche quali sublime, tragico, comico ecc.., è condannato da Croce in quanto estrinseco rispetto all’unicità del principio secondo cui l’arte è intuizione. L’estetica crociata riconduce all’unità e all’universalità di questo principio la varietà irriducibile delle forme espressive, che devono essere colte nella loro individualità, prescindere da rigide classificazioni che hanno una validità puramente pratica e empirica. Concetti come tragico, sublime., romanzo, novella, servono semplicemente a ordinare e catalogare le opere letterarie, e diventano fonte d’errore se trasformati in strumenti per la critica e il giudizio estetico. Di fronte all’arte bisogna chiedersi unicamente se essa sia espressiva e che cosa esprima, e nona quale genere appartenga. Il bello naturale, invece, per Croce, è privo di quei caratteri di attività e spiritualità che costituiscono l’essenza dell’atto intuitivo ed espressivo dell’arte, che nella sua purezza si distingue tanto dalle sensazioni da cui prende le mosse quanto dai sentimenti di piacere che è capace di suscitare, Non ha dunque senso parlare di bellezza naturale, in quanto la bellezza non è altro che “l’adeguatezza dell’espressione”. Tutto ciò che è espresso adeguatamente è bello, mentre è brutto ciò che è antiestetico o inespressivo, e che perciò si pone di fatto al di fuori dei confini dell’arte.

Al principio dell’intuizione Croce riconduce sia il momento della creazione artistica sia quello della ricezione, del giudizio, del gusto. Come leggiamo nell’Estetica , “l’attività giudicatrice, che critica e riconosce il bello, s’identifica con quella che lo produce. La differenza consiste soltanto nella diversità delle circostanze, perché una volta si tratta di produzione e l’altra di riproduzione estetica., L’attività che giudica si dice gusto; l’attività produttrice, genio: genio e gusto sono, dunque, sostanzialmente identici”. Il giudizio di gusto nasce dunque da un atto con cui l’intuizione estetica in cui consiste l’opera d’arte viene ri-prodotta. Su questa possibilità di rivivere la genesi di un’intuizione si fondano, secondo Croce, non soltanto la fruizione dell’arte e l’attività del critico, ma la stessa continuità della nostra vita di coscienza , in cui ci rapportiamo costantemente al nostro passato rivivendolo, e la possibilità di una vita sociale fatta di “comunione coi nostri simili” e di “comunicazione con gli altri uomini, del presente e del passato”. Per diventare storici della letteratura e dell’arte, però, non è sufficje3nte saper riprodurre le intuizioni contenute nelle opere, ma bisogna che a questa riproduzione faccia seguito la capacità di giungere a nuove intuizioni ed espressioni con cui un’opera viene rappresentata storicamente. Di qui l’alto compito assegnato da Croce alla critica e alla storia dell’arte e della letteratura: “la storia artistica e letteraria è, perciò, un’opera d’arte storica, sorta sopra una o più opere d’arte”.



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venerdì 21 febbraio 2025

FAMIGLIA: OPERA DELLA CREAZIONE E FESTA DELLA SALVEZZA, del Card. Gianfranco Ravasi

FAMIGLIA: OPERA DELLA CREAZIONE E FESTA DELLA SALVEZZA

del Card. Gianfranco Ravasi


           Non può restare nascosta una casa collocata sul crinale di un monte: parafrasando una celebre immagine del Discorso della Montagna (Mt 5,14), poniamo al centro della nostra riflessione un simbolo radicale nella stessa storia dell’umanità, la casa, un segno che s’affaccia bel 2092 volte col vocabolo ebraico bajit/bêt nell’Antico Testamento e 209 volte nel Nuovo Testamento sotto le parole analoghe oíkos e oikía, accompagnate da uno sciame di circa quaranta termini derivati. Dal crinale, dove svetta la casa simbolica che vogliamo delineare, si diramano due versanti che costituiscono il titolo stesso del nostro tema: da un lato, ecco l’alfa della creazione, che si distende lungo la traiettoria della storia; dall’altro lato, ascende il versante arduo dell’omega, ossia della festa piena della salvezza, l’escatologia, la meta attesa ove il “non ancora” della storia si trasformerà nell’“ora” perfetta della redenzione compiuta e la Gerusalemme terrena si muterà nella nuova Gerusalemme celeste.


           Le fondamenta della “casa”-famiglia

          Toda casa es un candelabro / donde arden con aislada llama las vidas. Forse questo verso era sbocciato nella mente del giovane Jorge Luis Borges, il famoso scrittore argentino, mentre ventiquattrenne passeggiava per una “strada ignota” della sua città, dato che la raccolta poetica s’intitola appunto Fervore a Buenos Aires (1923). Ed effettivamente le mura dei palazzi celano al loro interno tante fiamme “appartate” (aislada), cioè vite isolate nelle loro solitudini o nei loro drammi, famiglie unite nell’amore o scavate dalle divisioni, benestanti o curve sotto l’incubo della povertà o dell’assenza di lavoro. La “casa”, infatti, in molte lingue non è soltanto l’edificio di mattoni, di pietra e di cemento o la capanna o la tenda in cui si dimora (e la mancanza di una casa è un elemento drammatico di dispersione esistenziale), ma è anche chi vi abita, è il “casato” fatto di persone vive e di generazioni. Anzi, talora la “casa” per eccellenza è persino il tempio, residenza terrestre di Dio.

          Suggestivo, al riguardo, è il rimando di allusioni che regge l’oracolo del profeta Natan: al re Davide che vuole erigere una “casa” (bajit) al Signore, ossia un tempio in Gerusalemme, Dio replica affermando che sarà lui stesso a edificare per il re una “casa” (bajit), una discendenza familiare, quindi un “casato” che aprirà una storia destinata ad approdare al Messia (2Sam 7). La “casa” simbolica che stiamo per costruire partecipa di questa visione: è lo spazio che custodisce «l’intima comunione di vita e di amore…, la prima e vitale cellula della società», come il Concilio Vaticano II definisce la famiglia (GS 48; AA 11). È il segno dell’esistenza umana che si compie nella libera relazione interpersonale d’amore, come suggeriva lo scrittore inglese Gilbert K. Chesterton nel suo scritto Fancies versus Fads (1923): «La famiglia è il test della libertà umana perché è l’unica cosa che l’uomo libero fa da sé e per sé».

Già Aristotele, nella sua Politica, considerava la famiglia come la struttura istituita dalla natura stessa per provvedere all’esistenza piena della persona. È spesso ripresa la nota che il famoso antropologo Claude Lévi-Strauss ha posto nel cuore del suo saggio sulla famiglia nella raccolta Razza e storia e altri studi di antropologia (1952): «La famiglia come unione più o meno durevole, socialmente approvata, di un uomo, una donna e i loro figli… è un fenomeno universale, reperibile in ogni e qualunque tipo di società». Questa convinzione è sperimentalmente confermata anche nella società contemporanea, nonostante le apparenze contrarie, come si evince dalla quarta indagine degli “European Values Studies” (2009). Da essa risulta che l’84% dei cittadini europei (e il 91% degli italiani) considera fondamentale la famiglia e inaspettatamente 46 paesi su 47 la collocano al primo posto tra le realtà sociali più importanti, prima ancora del lavoro, delle relazioni amicali, della religione e della politica.

          La “casa” è, perciò, un emblema vivo e vivente che attinge all’antropologia autentica, non solo religiosa, la quale vede nella creatura umana non una monade chiusa in sé stessa, ma una cellula in relazione con un corpo più vasto, un orizzonte aperto che accoglie e si espande. In pratica, come vedremo, l’umanità si rivela “duale”, dotata di una necessità strutturale di dialogo con l’altro. Ha, quindi, un suo fondo di verità l’enfatica intemerata che lo scrittore francese André Gide scagliava nella sua opera Nutrimenti terrestri (1897): «Famiglie, vi odio! Focolari chiusi, porte serrate, geloso possesso della felicità!». Purtroppo, venendo meno alla sua vocazione sociale, la famiglia adotta spesso – soprattutto nella vicenda contemporanea – come emblema la porta blindata, così da rinchiudersi in se stessa, perdendo il suo respiro genuino, la sua identità primigenia, ignorando chi sta fuori di quella cortina di ferro protettiva che si tramuta in prigione.

Andando oltre, dobbiamo ricordare che la “casa”-famiglia è anche, come si diceva, l’analogia per definire il tempio ove si raduna la famiglia che ha per padre Dio. È per questo che uno dei vocaboli per indicare il santuario di Sion è appunto bajit e nel Nuovo Testamento entra in scena la kat’oíkon ekklesía, l’ecclesia domestica, ove lo spazio vitale di una famiglia si può trasformare in sede dell’eucaristia, della presenza di Cristo assiso alla stessa mensa (1Cor 16,19; Rm 16,5; Col 4,15; Fm 2; cf. LG 11). Indimenticabile è la scena dipinta dall’Apocalisse: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20).

          Iniziamo, allora, a far sorgere la “casa” simbolica e vivente che sta su quella vetta dalla quale si dipartono i due versanti della felicità della creazione e della festa della salvezza. È necessario partire dalle fondamenta solide, gettate sulla roccia del monte (cf. Mt 7, 24-25). La base è ovviamente costituita dalla coppia che è la radice dalla quale si leva il tronco della famiglia. Non è possibile ora né è necessario definire questo fondamento attraverso una compiuta teologia nuziale. Ci accontenteremo di rimandare a un testo biblico che è l’incipit stesso delle Scritture e, quindi, della creazione. Esso è desunto da quella pagina che contiene il progetto che il Creatore ha accarezzato come suo ideale e che ha proposto alla libertà della creatura umana. Questo disegno primordiale emerge nel capitolo 2 della Genesi e si affida a una sorta di collana di perle lessicali ebraiche, che ora cercheremo di far brillare in modo essenziale davanti ai nostri occhi attraverso un settenario di termini.

          La prima parola è ‘ezer, letteralmente un “aiuto” offerto nel momento più critico e, quindi, diventa risolutivo e indispensabile. Nel nostro caso c’è un incubo che sta attanagliando l’uomo appena uscito dalle mani di Dio: è la solitudine-isolamento, che spegne quella vitalità ad extra strutturale per la persona. «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un ‘ezer che gli corrisponda», esclama infatti il Creatore (Gen 2,18). Come è noto, non è sufficiente all’uomo avere accanto gli animali, che sono pure una simpatica presenza nell’orizzonte terrestre: «l’uomo non trovò in essi un aiuto (‘ezer) che gli corrispondesse» (2,20). Come ha cercato di rendere questo termine un esegeta, Jean-Louis Ska, ciò di cui ha bisogno l’uomo è «un allié qui soit son homologue». È, dunque, un aiuto vivo e personale, un alleato nel quale egli possa fissare gli occhi negli occhi, anche in un dialogo silenzioso perché – come suggerisce un testo attribuito al grande Pascal – nella fede come nell’amore i silenzi sono più eloquenti delle parole; nei due innamorati che si guardano negli occhi in silenzio l’inesprimibile si fa esplicito, l’ineffabile si rivela.

          Ecco, allora, la seconda formula ke-negdô, tradotta di solito con un “simile” o “corrispondente” aiuto. In realtà, il suo significato di base suona letteralmente così: “come di fronte”. È appunto quella parità di sguardi a cui si accennava. Finora l’uomo ha guardato verso l’alto, cioè verso la trascendenza, verso quel Dio che gli ha infuso il respiro vitale, gli ha donato «la fiaccola» della coscienza che «scruta le profondità dell’intimo» (Pr 20,27), lo ha insignito della libertà, collocandolo all’ombra dell’«albero della conoscenza del bene e del male». L’uomo ha poi guardato in basso, verso quegli animali che rivolgevano a lui il loro muso in attesa di ricevere un nome (Gen 2,19-20). Ora, invece, cerca un volto davanti a sé, un “tu”, «il primo dei beni, un aiuto adatto a lui e una colonna d’appoggio», come dice il Siracide (36,26), ma come meglio esclama la donna del Cantico dei cantici, un essere col quale è possibile comporre una piena reciprocità di donazione: «Il mio amato è mio e io sono sua… Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6,3: l’originale ebraico è musicalmente rimato e ritmato sul suono –ô–  e –î–  che denotano i due pronomi interpersonali, “lui” e “io”, dôdî lî wa’anî lô… ’anî ledodî wedodî lî).

          Passiamo, così, al terzo vocabolo che in questo caso è un simbolo: è quella “costola” sulla quale si sono ricamate tante ironie antifemminili. L’intervento creativo divino avviene all’interno di un “sonno”, che nella Bibbia è segno di un’esperienza trascendente, è la sede delle rivelazioni e delle visioni, è l’ambito in cui Dio è protagonista rispetto alla sua creatura. Ebbene, lo svelamento del valore di quell’azione divina ha luogo al risveglio, quando l’uomo intona quel canto d’amore primigenio che verrà declinato nella storia in infinite forme e formule differenti: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne» (2,23). Carne e ossa sono le componenti strutturali del corpo umano che, nell’antropologia biblica, è il segno della persona nella sua pienezza comunicativa (non abbiamo un corpo ma siamo un corpo). Si spiega, così, il simbolo della “costola”: essa indica la piena parità strutturale e costitutiva tra uomo e donna. Non per nulla, in sumerico ti designa sia la “costola” sia la “vita” trasmessa dalla donna. E questo ci conduce spontaneamente al quarto termine che si intreccia intimamente con la quinta locuzione ed entrambi risuonano in Gen 2,24: «L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne».

          È evidente che l’Adamo (in ebraico con l’articolo ha-’adam), protagonista del passo, è l’Uomo di tutti i tempi e di tutte le regioni del nostro pianeta: egli con la sua donna dà origine a una nuova famiglia, definita appunto attraverso i due vocaboli che ora sottolineiamo. Da un lato, c’è il verbo dabaq, “unirsi”, che letteralmente raffigura una stretta sintonia, un attaccamento fisico e interiore, tant’è vero che lo si adotta persino per descrivere l’unione mistica con Dio: «Il mio essere si tiene stretto (dabaq) a te», canta l’orante del Sal 63,9. Per questo san Paolo afferma che «chi si unisce a una prostituta forma con essa un solo corpo…, ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito» (1Cor 6,16-17). Col verbo dabaq si ha, quindi, l’atto sessuale sia nella sua dimensione corporea sia nella sua celebrazione d’amore, di donazione totale della coppia. D’altro lato, ecco appunto la formula finale “un’unica carne “ (basar ’ehad) che definisce visivamente quel dabaq e che apre il discorso forse alla componente successiva della “casa” che stiamo innalzando: infatti, per l’esegeta tedesco Gerhard von Rad, l’“unica carne” è anche il figlio che nascerà dai due e che porterà in sé, unendole, non solo geneticamente, ma anche spiritualmente le due realtà dei suoi genitori.

Possiamo, allora, concludere il disegno delle fondamenta della “casa”-famiglia con l’ultimo sguardo a questa coppia e al loro nome che ci presenta le ultime due parole: la donna «la si chiamerà ’isshah , perché da ’ish [l’uomo] è stata tratta» (2,23). Non c’è bisogno di spiegare come l’autore sacro abbia voluto ricordarci che queste due persone che costituiscono la coppia sono uguali nella loro dignità radicale, ma differenti nella loro identità individuale: ’ish è l’uomo nella sua realtà specifica e ’isshah è lo stesso termine ma al femminile, svelando così come la donna e l’uomo siano entrambi persone umane, pur nella diversità dei loro generi sessuali. La pienezza dell’umanità è in questa uguaglianza fatta di reciprocità necessaria, dialogica e complementare. La persona umana è, quindi, “duale” ed è così che realizza la sua autentica “identità”.

          Abbiamo, dunque, inanellato un settenario di vocaboli che reggono la base da cui sorge la famiglia, ossia la coppia: ‘ezer-aiuto indispensabile, che è ke-negdô, ci sta di fronte alla pari, simbolicamente raffigurato nella “costola”, cioè nella stessa componente strutturale dell’essere umano; l’uno e l’altra si abbracciano (dabaq), divenendo “una carne unica” (basar ’ehad) e recando i nomi uguali ma non identici di ’ish  e di ’isshah. A suggello facciamo risuonare un appello intenso del Talmud, la grande raccolta della tradizione religiosa giudaica: «State molto attenti a far piangere una donna perché Dio conta le sue lacrime! La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi perché dovesse essere pestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale, un po’ più in basso del braccio per essere protetta, e dal lato del cuore per essere amata». Nel cristianesimo, poi, questa unità d’amore riceve un suggello trascendente ulteriore che l’apostolo Paolo chiama “mistero” (Ef 5,32) e la teologia “sacramento”. In modo illuminante il teologo martire del nazismo Dietrich Bonhoeffer così commenterà questo trapasso: «Il matrimonio è più del vostro amore reciproco… Finché siete voi soli ad amarvi, il vostro sguardo si limita nel riquadro isolato della vostra coppia. Entrando nel matrimonio siete invece un anello della catena di generazioni che Dio chiama al suo regno».


           Le pareti di pietre vive

          Quando san Pietro tratteggia «l’edificio spirituale» della comunità ecclesiale, descrive le sue ideali pareti come costituite da líthoi zóntes, «pietre vive», che s’aggregano attorno alla «pietra viva» fondamentale che è Cristo (1Pt 2,4-5). Raccogliamo questa simbologia e la applichiamo alla casa che stiamo innalzando, quella della famiglia. Anche nel Cantico dei cantici, che è per eccellenza il poema dell’amore, si leva un “muro” al quale è appoggiato l’amato e questa parete è detta in ebraico kotel (Ct 2,9), che è lo stesso termine con cui oggi si denomina il muro del tempio di Gerusalemme davanti al quale l’Israele prega il Signore. Ebbene, quali sono le “pietre vive” che compongono le pareti della famiglia innalzandola verso l’alto, l’oltre, il futuro? Sono i figli. È curioso notare che, statisticamente parlando, la parola che ricorre più volte nell’Antico Testamento – al di là delle congiunzioni, gli articoli, le preposizioni e gli avverbi, e dopo il nome divino Jhwh (6828 volte) – è il vocabolo ben, “figlio”, che risuona per 4929 volte!

          Il legame di ben con la casa risulta diretto e intimo se si tiene conto che il verbo “costruire, edificare” in ebraico è banah, e la rappresentazione più incisiva di questo vincolo stretto è nella miniatura poetica del Salmo 127: «Se il Signore non costruisce (banah) la casa, invano vi faticano i costruttori… Ecco eredità del Signore sono i figli (ben), è un suo premio il frutto del grembo. Come frecce in mano a un guerriero sono i figli (ben) avuti in giovinezza. Beato l’uomo che ne ha colma la faretra: non sarà umiliato quando verrà alla porta a trattare coi suoi nemici». Certamente il Salmo riflette una società di stampo agrario ove le braccia per il lavoro nei campi e negli scontri tribali erano decisive. La scena finale è tipicamente orientale: il padre, simile a uno sceicco, attorniato dalla sua folta e vigorosa prole, quasi fosse una guardia del corpo, incute timore quando si presenta alla porta davanti ai suoi avversari. Già nella Sapienza di Ani, un testo egizio del XIII secolo a.C., si leggeva: «L’uomo i cui figli sono numerosi è salutato rispettosamente e temuto a causa dei suoi figli». La  pienezza della famiglia è tendenzialmente affidata alla discendenza.

          Tuttavia, per approfondire questo tema in chiave teologica, raccogliamo l’invito stesso di Cristo che spinge, per parlare della famiglia, a risalire ap’ archés, “in principio”, e ritorniamo alla Genesi, a un passo del primo racconto della creazione posto proprio in apertura alla Bibbia. Là si legge questa frase: «Dio creò l’uomo a sua immagine, / a immagine di Dio lo creò / maschio e femmina li creò» (1,27). Lo schema del parallelismo tipico della letteratura semitica rivela che “immagine di Dio” ha come parallelo esplicativo proprio la coppia “maschio e femmina”. Dio, allora, è sessuato e accanto a lui si asside una compagna divina, come l’Ishtar-Astarte babilonese? Ovviamente no, sapendo con quanta nettezza la Bibbia rifiuti come idolatrica questa concezione diffusa tra gli indigeni Cananei della Terrasanta. Dio resta trascendente, ma è creatore e la fecondità della coppia umana è “immagine” viva ed efficace dell’atto creativo divino, ne è un segno visibile; la coppia che genera è la vera “statua” (non quella di pietra o d’oro che il Decalogo proibisce) che raffigura il Dio creatore e salvatore.

L’amore fecondo è, perciò, il simbolo della realtà intima di Dio e proprio per questo il racconto della Genesi, secondo la cosiddetta “Tradizione Sacerdotale”, è tutto scandito sulle sequenze genealogiche (1,28; 2,4; 9,1.7; 10; 17,2.16; 25,11; 28,3; 35, 9.11; 47,27; 48,3-4): la capacità di generare della coppia umana è la via sulla quale si snoda la storia della salvezza. Possiamo, anzi, dire che l’intera Bibbia è per molti versi un’ininterrotta storia di famiglie. È, però, da notare che, accanto all’“immagine” (selem), si parla anche di “somiglianza” (demût), un modo per sottolineare la non-identità totale fra divinità e umanità; esiste una distanza, marcata proprio da questo secondo vocabolo: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza» (1,26). Il mistero di Dio ci trascende, ci precede e ci eccede.   

Sta di fatto, però, che la relazione generativa umana diverrà l’analogia illuminante per scoprire il mistero di Dio: fondamentale al riguardo è la visione trinitaria cristiana che introduce in Dio un Padre, un Figlio e lo Spirito d’amore. Dio-Trinità è comunione di amore e la famiglia ne è il riflesso vivente. E come i tre umani, uomo-donna-figlio, sono “una cosa sola”, così Padre-Figlio-Spirito sono un unico Dio. Le parole di Giovanni Paolo II, pronunciate il 28 gennaio 1979, durante il suo viaggio apostolico in Messico, sono illuminanti: «Il nostro Dio nel suo mistero più intimo non è una solitudine, ma una famiglia, dal momento che ci sono in lui la paternità, la filiazione e l’essenza della famiglia che è l’amore. Quest’amore, nella famiglia divina, è lo Spirito Santo. Così, il tema della famiglia non è affatto estraneo all’essenza divina». L’analogia trinitaria, come è noto, ha poi una declinazione cristologico-ecclesiale da parte di san Paolo riguardo al “mistero” dell’unione nuziale (Ef 5,21-33).

          Infine, dobbiamo ricordare che sulle pareti di pietre vive della casa familiare sono incise due epigrafi che delineano l’impegno vitale morale dei suoi abitanti. Sono i due comandamenti capitali della famiglia. Da un lato, ecco il precetto nuziale della fedeltà: «Non commetterai adulterio» (Es 20,14), ricondotto da Cristo alla pienezza del progetto divino originario dell’amore totale e indissolubile (Mt 5,27-28; 19,3-9). D’altro lato, ecco il comandamento sociale: «Onora tuo padre e tua madre» (Es 20,12), dove la figura paterno-materna incarna tutta la complessa rete delle relazioni sociali, essendo appunto la famiglia la cellula germinale del tessuto comunitario. E naturalmente queste due ideali epigrafi ricevono il loro commento in tante pagine bibliche e in tanti insegnamenti del magistero ecclesiale sulla famiglia, a partire dalle celebri “tavole domestiche” paoline (Ef  5,21-6,9; Col 3,18-4,1).


           Le tre stanze della “casa”-famiglia

          Una casa è costituita da spazi diversi in cui si consuma l’esistenza dei suoi abitanti. Noi ora evochiamo tre locali simbolici e lo facciamo in modo molto essenziale, consapevoli in realtà che in essi si nascondono opere e giorni ora monotoni ora esaltanti. La prima è la stanza del dolore. Aveva ragione Tolstoj quando, nel suo celebre romanzo Anna Karenina, affermava che «le famiglie felici si somigliano tutte; le famiglie infelici sono infelici ciascuna a modo suo». La Bibbia stessa ne è testimone costante, a partire dalla brutale violenza fratricida di Caino su Abele e dalle liti tra i figli e le spose degli stessi patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, per passare poi alla tragedia che insanguina la famiglia di Davide col figlio Assalonne aspirante parricida, fino a giungere alle molteplici difficoltà che costellano quel mirabile racconto familiare che è il libro di Tobia o a quell’amara confessione di Giobbe abbandonato e isolato: «I miei fratelli si sono allontanati da me, persino i miei familiari mi sono diventati estranei… Il mio alito fa schifo a mia moglie, faccio ribrezzo ai figli del mio grembo» (19, 13.17). Lo stesso Gesù nasce all’interno di una famiglia di profughi, entra nella casa di Pietro ove la suocera è malata, si lascia coinvolgere dal dramma della morte nella casa di Giairo o in quella di Lazzaro, ascolta il grido disperato della vedova di Nain o del padre dell’epilettico di un villaggio ai piedi del monte della Trasfigurazione.

          Nelle loro case incontra pubblicani come Matteo-Levi e Zaccheo, o peccatrici come la donna che s’introduce nella casa di Simone il lebbroso; conosce le ansie e le tensioni delle famiglie travasandole nelle sue parabole: dai figli che lasciano le case per tentare l’avventura (Lc 15,11-32) fino ai figli difficili dai comportamenti inspiegabili (Mt 21,28-31) o a quelli vittima di violenza (Mc 12,1-9). E si interessa anche di nozze che corrono il rischio di diventare imbarazzanti per assenza di vino o di ospiti (Gv 2,1-10; Mt 22,1-10), così come conosce l’incubo per lo smarrimento di una moneta in una famiglia povera (Lc 15,8-10). Si potrebbe continuare a lungo nel descrivere la vastità della stanza del dolore, naturalmente giungendo fino ai nostri giorni quando le pareti domestiche registrano spesso la decostruzione dell’intero edificio familiare in una sorta di terremoto. La lista delle antiche lacerazioni dei divorzi, ribellioni, infedeltà, aborti e così via si allarga a nuovi fenomeni socio-culturali come l’individualismo, la privatizzazione, i sorprendenti e non di rado sconcertanti percorsi bioetici della fecondazione in vitro, dell’utero in affitto, della coppia omosessuale e delle relative adozioni, delle teorie sul “gender”, della clonazione, della monogenitorialità, della pornografia e via dicendo.

          Una lista di realtà che scuote l’impianto tradizionale della famiglia e che rende la casa un qualcosa di “liquido”, plasmabile in forme molli e mutevoli che impongono continue riflessioni di natura culturale, sociale ed etica. Noi ci fermiamo qui, affidando ad altri questa visita ardua allo spazio delle difficoltà e degli interrogativi, uno spazio dai confini incerti che lo rendono contenitore di “mondovisioni” diverse, di veri e propri “multiversi” incontenibili. Accanto, però, troviamo subito un altro locale ove ferve l’opera umana, ma che, purtroppo, non di rado ai nostri giorni si fa deserto e sembra aprire le sue porte quasi automaticamente alla camera della sofferenza appena descritta. Parliamo, infatti, della stanza del lavoro. Nel progetto divino della creazione da cui siamo partiti l’uomo era invitato a “prendere possesso” (kabash) e a “governare” (radah) il creato, simbolicamente rappresentato come un giardino ricco, fertile e popoloso: «Riempite la terra, prendetene possesso e governate i pesci del mare, gli uccelli del cielo e ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1,28).

          Anzi, si ribadiva – usando in ebraico i verbi stessi del culto e dell’alleanza con Dio, ‘abad shamar, “servire” e “osservare” – che «il Signore Dio prese l’uomo e lo collocò nel giardino di Eden, perché lo coltivasse (‘abad) e lo custodisse (shamar)» (2,15). Dopo tutto, la stessa rappresentazione del Creatore è quella di un lavoratore che opera (bara’, “creare”, è il verbo dell’artigiano) per una settimana lavorativa di sei giorni (1,1), o anche di un pastore (Sal 23) o di un contadino (Sal 65,10-14), o di un tessitore o di un vasaio che modella il suo capolavoro tessile o fittile (Gen 2,7; Ger 18,6; Sal 139, 13-16; Gb 10,8-11). Egli nella sua opera di creazione non è certo simile a un guerriero distruttore come si aveva, invece, nelle antiche cosmologie del Vicino Oriente. È in questa luce che il Salmista dipinge un delizioso interno familiare che ha al centro una festosa tavolata ove è assiso il padre che può nutrire se stesso, la sua sposa, comparata a una vite feconda, e i figli, vigorosi virgulti d’olivo, attraverso «la fatica delle sue mani» (Sal 128, 2-3). È una felicità che nasce dall’impegno pesante del lavoro (labor in latino è anche “travaglio”, come nel francese travail, e deriva dalla radice indoeuropea labh- che designa un “afferrare” per trasformare).

          È una serenità che dilaga anche nella società e nelle generazioni future: «Possa tu vedere il bene di Gerusalemme… Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!» (128, 5-6). Il lavoro, infatti, è un dono divino, come suggerisce il Salmo precedente, il 127, quello del padre e dei figli a cui abbiamo già accennato: «Se il Signore non vigila sulla città…, invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, voi che mangiate un pane di fatica» (127,2). Ne è consapevole anche la materfamilias il cui ritratto suggella il libro dei Proverbi, donna sapiente e fedele a Dio il cui lavoro è celebrato in tutti i particolari quotidiani, così da attirarsi la lode del marito e dei figli (31,10-31). Lo stesso apostolo Paolo sarà orgoglioso dell’aver vissuto senza esser di peso a nessuno con l’opera delle sue mani, tanto da imporre la regola ferrea: «Chi non lavora neppure mangi» (2Ts 3,7-12: cf. At 18,3).

          Detto questo, si comprende che la disoccupazione e la precarietà si trasformano in sofferenza, come si registra nel delicato ed emozionante libretto di Rut e come ricorda Gesù nella parabola dei lavoratori a giornata, seduti in ozio forzato nella piazza del villaggio (Mt 20,1-16), o come egli sperimenta nel fatto stesso di essere circondato spesso da miserabili e da affamati, così come era accaduto al profeta Elia che si era trovato davanti una vedova col figlio sfiniti dalla fame (1Re 17,7-18). È ciò che la società contemporanea sta vivendo in modo talora tragico e questa assenza di lavoro si trasforma in un vero e proprio attentato alla solidità della “casa”-famiglia.  Non bisogna neppure dimenticare la degenerazione che il peccato introduce nella società, quando l’uomo si comporta da tiranno nei confronti della natura, devastandola, sfruttandola egoisticamente e brutalmente, secondo norme dispotiche, così da rendere il lavoro una cupa alienazione, segnata dal sudore personale, dalla desertificazione del suolo (Gen 3,17-19) e dagli squilibri economico-sociali contro i quali si leverà forte e chiara la denuncia costante dei profeti, a cominciare da Elia (1Re 21) e Amos per giungere fino allo stesso Gesù (ad es. Lc 12,13-21; 16,1-31). L’arricchimento sfrenato, fonte di ingiustizie, è alla fine un’idolatria, come scriveva il teologo Paul Beauchamp, nella sua opera La legge di Dio: «O l’uomo adora Dio perché è Dio che lo ha fatto, o l’uomo adora l’idolo perché è lui stesso ad averlo fatto. Io adoro colui che mi ha fatto o adoro colui che ho fatto… L’idolatria colpisce il lavoro, come certe malattie colpiscono più alcuni organi che altri».

           La stanza della festa

          C’è, però, una terza e ultima camera della nostra “casa” simbolica: è la stanza della festa e della gioia familiare. Essa, come suggeriva il filosofo Soeren Kierkegaard, deve avere la porta che «si apre verso l’esterno così che può essere richiusa solo andando fuori da se stessi». E comunicare con l’esterno può essere complesso e faticoso perché si presentano fenomeni inediti come la globalizzazione, la civiltà digitale con la sua rete che avvolge il globo, il fermento della scienza che non teme di inoltrarsi lungo sentieri d’altura come nel caso delle neuroscienze e delle biotecnologie, l’incontro con volti diversi e il cosiddetto “meticciato” delle culture e via elencando. Questa molteplicità d’esperienze è, però, feconda e può arricchire la festa della famiglia, qualora essa sappia custodire nel dialogo la sua identità cristiana in forma non aggressiva e integralistica, ma sappia anche non stingersi e scolorirsi in un generico e vago sincretismo. Bisogna, quindi, ricordare che l’ingresso in questa stanza solare avviene non di rado dopo una lunga attesa e un’intensa preparazione, come affermava in modo suggestivo nel suo Diario lo scrittore francese Jules Renard: «Se si vuol costruire la casa della felicità, ci si deve ricordare che la stanza più grande dev’essere la sala d’attesa».

Questo spazio gioioso è collegato e adiacente al locale del lavoro. A questo proposito è significativo ancora una volta il racconto d’apertura della creazione secondo la Genesi. In quella pagina emerge un elemento simbolico dialettico che raccorda appunto lavoro e festa. L’uomo è considerato il vertice della creazione: non è solo una realtà “bella/buona” (tôb) come le altre creature, ma è “molto bella/buona” (Gen 1,31). Eppure egli è creato il sesto giorno e il sei, nella simbologia numerica biblica, è indizio di imperfezione, essendo il sette il segno della pienezza. L’uomo è, quindi, prigioniero del limite temporale, spaziale, fisico e metafisico. Tuttavia, può evadere dal carcere della sua natura creaturale e della stessa ferialità: lo fa quando celebra il sabato, il settimo giorno, la festa, la liturgia, la preghiera. Quel giorno, infatti, è il tempo di Dio, l’orizzonte trascendente in cui egli “riposa” nella pienezza della sua gloria. Per questo, il sabato è tratteggiato dalla Genesi come un tempio che viene “benedetto” e “consacrato”: «Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò» (2,3), rendendolo la sede della vita piena e perfetta, il tempio nel tempo, scandito dall’eternità.

          L’uomo e la donna, quando celebrano la liturgia festiva, entrano nel tempio/tempo eterno divino. Come scriveva il pensatore mistico ebreo Abraham J. Heschel nel suo noto testo sul Sabato (1951), «per sei giorni viviamo sotto la tirannia delle cose dello spazio; il sabato ci mette in sintonia con la santità del tempo. In questo giorno siamo chiamati a partecipare a ciò che è eterno nel tempo, a volgerci dai risultati della creazione al mistero della creazione, dal mondo della creazione alla creazione del mondo». In questa linea è significativo registrare nella duplice redazione del Decalogo la diversa motivazione che giustifica la festa sabbatica. Da un lato, in Dt 5,12-15 si sottolinea l’uscita dal regime del lavoro feriale, rievocando la liberazione dall’alienazione dell’oppressiva schiavitù egizia; d’altro lato, in Es 20,8-11 si celebra l’ingresso nel riposo perfetto ed eterno del settimo giorno “benedetto e consacrato” da Dio dopo i sei giorni della creazione. La festa è, quindi, liberazione dal limite e partecipazione all’eternità, è comunione con Dio che strappa la creatura umana dal sesto giorno e la introduce nella festa del settimo ove essa “riposa” come Dio.

          È per questo che la Lettera agli Ebrei dipinge la vita eterna come un sabato senza fine, non più compresso dalla fuga del tempo né occupato dagli idoli terreni o striato dal peccato umano (3,7 – 4,11). È per questo che l’apocrifo giudaico Vita di Adamo ed Eva afferma che «il settimo giorno è il segno della risurrezione e del mondo futuro». È per questo che la festa primaria dell’Israele biblico, la Pasqua, è di sua natura familiare ed è collocata nello spazio della tenda domestica (Es 12): essa è la celebrazione dell’uscita-esodo dal lavoro oppressivo imposto dal faraone ed è l’avvio dell’ingresso nella terra promessa che diventa un simbolo della patria celeste, come appare esplicitamente nella trama sia del Libro della Sapienza sia dell’Apocalisse.

          È per questo, come si è già ricordato in apertura, che la celebrazione eucaristica delle origini cristiane aveva come sede proprio la ecclesia domestica e come contorno il convito familiare (1Cor 11,17-33). Era là che i genitori diventavano i primi araldi della fede per i loro figli. Già nell’antico Israele la famiglia era il luogo della catechesi: è ciò che brilla nel racconto della celebrazione pasquale e che sarà esplicitato nella haggadah giudaica, ossia nella “narrazione” dialogica che accompagna il rito pasquale. Anzi, il Salmo 78 esalta l’annuncio familiare della fede: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha posto una legge in Israele, che ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai loro figli, perché la conosca la generazione futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro figli, perché ripongano in Dio la loro fiducia e non dimentichino le opere di Dio, ma custodiscano i suoi comandi» (78, 3-7).

          Pertanto, la festa autentica non è né un orizzonte vuoto e inerte, come Tacito bollava il sabato degli Ebrei, né è un mero week-end, ma è un evento positivo, è segno di una trascendenza resa disponibile alla creatura, è dono di una comunione con Dio, è la requies aeterna che i cristiani augurano ai loro defunti e che è già pregustata nella liturgia terrena del “giorno del Signore”, la “domenica” (Ap 1,10). Possiamo, dunque, affermare con Benedetto XVI che «il lavoro e la festa sono intimamente collegati con la vita delle famiglie: ne condizionano le scelte, influenzano le relazioni tra coniugi e tra i genitori e i figli, incidono sul rapporto della famiglia con la società e con la Chiesa. La Sacra Scrittura (cfr. Gen 1-2) ci dice che la famiglia, il lavoro e il giorno festivo sono doni e benedizioni di Dio per aiutarci a vivere un’esistenza pienamente umana».

          Queste parole del Papa, desunte dalla Lettera per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie, riassumono la nostra visita ideale nella sala della festa che si apre nella casa simbolica che abbiamo descritto. Ricorrendo al celebre motto benedettino, possiamo dire che il labora dell’impegno feriale si deve aprire all’ora della liturgia festiva, conservando comunque l’unità dell’Ora et labora settimanale. La porta della “casa”-famiglia si spalanca, quindi, anche sull’altro versante del monte ove essa è posta, un versante illuminato dal sole dell’eternità e dell’infinito. Detto in altri termini, la stanza della festa ha davanti a sé una terrazza che s’affaccia sul cielo e sul futuro escatologico, quando tutte le tribù di Israele e «una moltitudine immensa e innumerevole di ogni nazione, famiglia, popolo e lingua staranno tutte in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolte in vesti candide, con rami di palma nelle loro mani» (cf. Ap 7,4-9).

          Sarà, quindi, la liturgia perfetta, la festa eterna, il futuro definitivo che era prefigurato proprio dai figli che evocavano nella storia la novità, l’alterità, la continuità temporale, l’attesa, la progettualità. A quella “immortalità” affidata alle generazioni che si distendono nel tempo succede ora la vera e piena immortalità, la pasqua che non ha tramonto: «in quel giorno non vi sarà né luce né freddo né gelo, sarà un unico giorno, solo il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte e verso sera risplenderà la luce… La città non avrà bisogno della luce del sole né della luce della luna, la gloria di Dio la illuminerà e la sua lampada sarà l’Agnello» (Zc 14, 6-7; Ap 21,23). Allora si chiuderà per sempre la “stanza del dolore” perché Dio «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4).

          Mentre contempliamo la “casa”-famiglia che dovremmo erigere nella nostra storia sulla scia del desiderio che Dio ha espresso nelle Scritture, risuona un’ultima parola: è quella della speranza, virtù molto realistica, come affermava il poeta francese Charles Péguy che ad essa ha dedicato un poemetto, Il portico del mistero della seconda virtù (1911): «È sperare la cosa difficile / a voce bassa e vergognosamente. / E la cosa facile è disperare / ed è la grande tentazione». Certo, è arduo edificare e tener salda questa casa, come ripeteva il grande Montaigne nei suoi Saggi, perché «governare una famiglia è poco meno difficile che governare un regno». Eppure, l’amore fiducioso e generoso può compiere miracoli. Persino un pessimista come il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, nella sua amara Casa di bambola (1879), non esitava a riconoscere – sia pure al negativo – che «la vita di famiglia perde ogni libertà e bellezza quando si fonda solo sul principio dell’io ti do e tu mi dai». Cristo ha introdotto, invece, quest’altro principio: «Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per la persona che ama» (Gv 15,13), varcando così la stessa legge, pur alta, dell’«amare il prossimo come se stessi».

          Immaginiamo, allora, di intuire in finale, in una stanza della nostra casa simbolica, quel delizioso quadretto che il Salmista ha abbozzato soltanto con 11 vocaboli in un testo composto di sole 30 parole ebraiche. È il Sal 131 che introduce nella famiglia e nella fede quella virtù che ai nostri giorni è brutalmente ignorata, la tenerezza. Come accade altrove nella Bibbia (ad es. Es 4,22; Is 49,15; Sal 27,10), il legame tra il fedele e il suo Signore è modellato sul rapporto genitoriale. Qui è la dolce e tenera intimità che intercorre tra una madre e il suo bambino. Non si tratta, però, di un neonato che, dopo essere stato allattato, dorme placido tra le braccia della sua mamma, bensì – come esplicita il vocabolo ebraico gamûl – è di scena un bimbo “svezzato” che s’attacca consapevolmente alla madre che lo porta sul dorso, in una relazione di intimità cosciente e non meramente biologica.

          Canta, dunque, il Salmista: «Io ho l’anima mia distesa e tranquilla; come   un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia» (131,2). In dissolvenza potremmo far scorrere un’altra scenetta parallela, quella di un padre profeta, Osea, il quale metteva in bocca a Dio padre questo soliloquio familiare che immaginiamo di intravedere anch’esso da una delle finestre della nostra “casa” simbolica: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato… Gli insegnavo a camminare tenendolo per mano… Lo attiravo con legami di tenerezza, con vincoli d’amore. Ero come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,1-4). Con quest’ultimo sguardo che intreccia fede e amore, grazia e impegno, famiglia umana e Trinità divina, contempliamo per l’ultima volta la casa che la Parola di Dio affida alle mani dell’uomo, della donna e dei figli perché compongano «una comunione di persone, segno e immagine della comunione del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. La sua attività procreatrice ed educativa è il riflesso dell’opera creatrice del Padre. La famiglia è chiamata a condividere la preghiera e il sacrificio di Cristo. La preghiera quotidiana e la lettura della Parola di Dio corroborano in essa la carità» (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2205).          

        

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Fonte: http://www.cultura.va/content/cultura/it/organico/cardinale-presidente/texts/varsavia.html

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